Umberto. Da Mussolini alla Repubblica. Storia dell'ultimo re by Silvio Bertoldi

autore:Silvio Bertoldi [Bertoldi, Silvio]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Biografia, Storia
ISBN: 2565576101998
Google: ye8hAQAAIAAJ
editore: Bompiani
pubblicato: 1983-10-15T23:00:00+00:00

Vi sono le prove che, dalla partenza da Roma fino all’arrivo a Brindisi, Umberto manifestò ripetutamente scoramento e disapprovazione per la decisione di abbandonare così la capitale. È vero che, alle quattro del mattino del nove settembre, quando Roatta mandò a svegliare Badoglio perché i tedeschi avevano circondato Roma e restava aperta solo la via Tiburtina per far partire la famiglia reale e il governo, il principe espresse il suo dissenso e propose di restare. È vero che, uscendo in automobile alle 5,30 dal Ministero della Guerra per avviarsi verso Pescara, si teneva la testa tra le mani e mormorava: “Dio che figura!” La macchina, guidata dal sergente maggiore Cozzani, aveva a bordo, oltre a Umberto, i suoi due ufficiali di ordinanza Campello e Litta Modignani. Tre testimoni, dunque.

Sull’auto che viaggiava nelle false luci del mattino per una strada incerta, affollata da tedeschi in ritirata e da camicie nere dall’equivoco atteggiamento, avvennero nuovi sintomatici episodi.

Campello, amico d’infanzia del principe, poteva permettersi una confidenza negata ad altri. Ebbe un impeto incontenibile e disse a Umberto che il suo posto era a Roma, che tornasse indietro.

Il principe, tormentato e perplesso, sembrava d’accordo, ma non sapeva decidersi. Cominciava per lui, in quell’istante, la nuovissima condizione che Luigi Barzini sul Corriere della Sera, nel 1960 riassumerà così: “Umberto, che il padre aveva sempre tenuto lontano dalle faccende pubbliche e dai problemi politici, dovette affrontare da solo, senza esperienza, una situazione compromessa senza rimedio, all’ultimo, in un momento tragico per il Paese e per la sua Casa: una situazione ereditata.” Aveva ragione Caviglia, quando scriveva: “Il Principe di Piemonte è messo in disparte: non gli danno nessun comando.” Si erano lasciati passare tre anni di guerra senza inserirlo veramente nel meccanismo militare, in modo che almeno là potesse manifestare le sue capacità e le sue doti. Come comandante del Gruppo Armate Sud, il principe aveva alle sue dipendenze la VI Armata del generale Guzzoni, la VII Armata del generale Arisio, il Comando superiore della Sardegna (generale Basso), il Comando del VII Corpo d’armata in Corsica (generale Magli), la difesa di Roma (interna, esterna e mobile: generali Barbieri, Zanghieri e Carboni), la V Armata (generale Caracciolo), la IV Armata (generale Vercellino), l’VIII Armata (generale Gariboldi), la II Armata (generale Robotti). Questo in teoria. In pratica non era a capo di nulla. Quando Mussolini decise di togliere Roatta dalla Sicilia e di nominarlo capo di stato maggiore dell’esercito, il principe non fu nemmeno informato. Lo seppe perché cercava il generale e gli risposero, ma come, non sa che non è più a quel posto? Si lasciò scappare uno sfogo amaro: “Ormai, per conoscere gli avvenimenti non mi resta che il giornale radio.”

In simili condizioni, róso dalla consapevolezza di essere partecipe di un errore probabilmente fatale e dall’impossibilità di opporvisi per l’equivoco che poteva sorgere tra opposizione e disobbedienza nei riguardi del re, Umberto viaggiava con mille ansie e preoccupazioni verso Pescara. Ad un certo punto ripeté: “Forse sarebbe stato meglio se io fossi rimasto a Roma.” Come pentito, aggiunse: “Ma ho dovuto ubbidire agli ordini del Re.

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